18 mar 2017

FIASCHI E GRAFFITI

Questa volta da Los Angeles non torno con le tasche completamente vuote. Almeno questa volta tornero’ con un insegnamento. E’ successo che graffitari e romani hanno avuto ciascuno quel che si meritava e, adesso, tutto e’ in una nuova prospettiva. Ed e’ la prospettiva d’una nuova piu’ democratica e meritocratica scala gerarchica che d’ora in avanti regolera’ le relazioni del mondo (dell’arte). Ad uscire vincitori sono i graffitari e, neanche a dirlo, gli sconfitti gli altri, gli artisti di Roma. D’altronde Roma e’ da anni in mano ai graffitari che dispongono dei suoi monumenti e delle sue piazze come meglio credono col benestare del suo popolo e dei suoi amministratori. Dunque era da aspettarsi un risultato del genere anche qui’ a Los Angeles dove, malgrado i taggari non abbiano vita facile poiche’ comunemente considerati vandali e imbrattatori, e’ stato loro riconosciuto uno status piu’ alto rispetto a quello degli artisti di corte in trasferta.

Sto parlando di due mostre inaugurate ad un paio di giorni l’una dall’altra.

La prima e’ quella dei graffitari che ne celebra in pompa magna l’importanza creativa e si svolge negli immensi spazi d’un museo privato ma anche un po’ pubblico ed e’ stata curata ed allestita senza badare a spese e con un dispiego di energie co-operative e di intelligenza filologica tale da rendere degno d’attenzione o addirittura monumentale il piu’ insignificante scarabocchio. Ed infatti il risultato e’ che esci dalla mostra portando con te un valigia di adrenalina ed informazioni sul mondo degli imbratta-muri che ti fa’ riconsiderare la tua opinione su di loro (sempre che prima fosse negativa). E arrivi a chiederti: Che siano loro i veri protagonisti del nuovo rinascimento? Dopotutto l’arte contemporanea e’ diventata talmente pretestuosa, effimera ed astrusa quasi imperscrutabile a meno, naturalmente, di volersi fidare delle parole di qualcuno piu’ intelligente e colto di noi che ce la spieghi. Per esempio, perche’ no?, un curatore o un critico. Al medesimo tempo i graffitari parlano chiaro e quindi sono piu’ democratici. E poi, ad essere sinceri, in alcuni casi, migliorano l’aspetto delle nostre citta’ stuprate dai costruttori corsari dal dopoguerra ad oggi, le rendono piu’ gradevoli.

Al sorgere di questo dubbio che rimette in gioco le nostre poche certezze potrebbe venirci in soccorso per scioglierlo (a favore dei taggari e definitivamente) l’altra mostra in oggetto, che negli stessi giorni e’ stata inaugurata in un meno (molto meno) prestigioso istituto culturale della stessa citta’ e soprattutto allestita con pochi mezzi, poche idee (ma confuse) e, soprattutto, molta presunzione. In mostra lavori mediocrissimi di una trentina d’artisti romani che forse, pero’, non rappresentano degnamente la produzione dell’arte alta di oggi. Potrebbe darsi che non rispecchino la situazione reale. Forse proprio perche’ romani portano dentro e lo manifestano nelle loro opere un complesso di inferiorita’ ed un astio che hanno sviluppato nei confronti dei graffitari che nella stessa citta’ in cui vivono godono di tanta piu’ visibilita’ e liberta’ espressiva di loro? Se si pensa a quanto poco facciano I musei e le gallerie romane questa ipotesi potrebbe esser presa in seria considerazione, ma la prima incongruenza risiede nel fatto che molti o forse addirittura tutti gli artisti in questa mostra hanno nel corso delle loro carriere dimostrato di valere almeno l’aggettivo “dignitoso” cioe’ di valere infinitamente di piu’ della poca stima nei loro confronti con cui un qualunque visitatore lascia la mostra al penoso istituto italiano di cultura di Los Angeles. E cio’ non perche’ siano tutti artisti eccelsi (ma dignitosi si!) ma perche’, al contrario l’immagine che “When in Rome” (questo e’ il titolo della mostra) regala di loro non potrebbe essere piu’ bassa. Per la scelta scriteriata dei lavori e soprattutto l’allestimento da terzo mondo (del quale aspiriamo a far farte da tempo. aspirazione oltremodo leggittima, verrebbe da dire) che, per decoro, non mi soffermero’ a descrivere.

E si che l’evento, almeno cosi’ s’evince dal pieghevolino che funge da catalogo (letteralmente un foglio A4 piegato in quattro) e’ stato voluto, ideato, sostenuto ed organizzato da una fondazione per l’arte con sede a roma per mostrare i nuovi gioielli dell’arte capitolina all’ignorante pubblico californiano. L’idea di fondo sara’ stata “facciamogli vedere quanto siamo bravi”. L’idea con cui si esce da quell’inferno di mostra e’ piu’ sul “mamma mia che schifo!”
Eppure questa stessa fondazione s’era, soltanto un paio d’anni prima, prodigata con tutte le sue forze a che il pubblico romano uscisse da un’altra mostra con lo stupore in volto. Allora, pero’, inversamente si portava sotto gli occhi dei poveri e provinciali romani l’arte con la a maiuscola, quella prodotta dalle giovani leve newyorkesi. E l’evento, neanche a dirlo, ebbe tutto un altro respiro. Spazi di livello museale (infatti del tutto simili a quello della mostra dei graffiti di cui sopra) organizzazione impeccabile. Senza badare a spese, in quel caso (al contrario di quanto avvenuto con questa di Los Angeles), non ci furono limitazioni in termini di dimensioni delle opere da far giungere da una sponda all’altra dell’atlantico (e, direi, giustamente, visti gli intenti a monte dell’operazione). Insomma fu una signora mostra di quelle mostre di cui si parla per molti mesi o anni. Anche in quel caso l’allestimento (come nel caso dei graffitari) aiuto’ a dimenticare la pochezza artistica delle opere esposte.

Che alla fondazione (che e’ privata) non stia a cuore la questione puo’ anche starci. A loro va bene comunque in quanto si fanno una gran pubblicita’ (che infatti e’ l’unica cosa in cui sono stati investiti un po’ soldini), e ne hanno un ritorno d’immagine (hanno pur sempre organizzato un’evento negli USA con alcuni nomi importanti dell’arte contemporanea europea). Quei soldini generosamente elargiti dalla provincia di roma (apprendiamo dal pieghevolino – e chissa’ quanti. Mi piacerebbe tanto saperlo!) forse pero’ erano pochi, anzi dovevano essere davvero pochissimi dato che la prima preoccupazione degli organizzatori era il contenimento delle dimensioni dei lavori in mostra (i costi di spedizione da Roma a Los Angeles sono alquanto esosi) e la seconda il contenimento di tutti gli altri costi. Ed infatti tutto l’evento e’ stato avvolto in un’atmosfera a tinte grigioline e molto austera tanto che ci s’aspettava da un momento all’altro saltassero fuori il ragionier Fantozzi ed il geometra Filini con un bottiglione di gazzosa con su scritto champagna per festeggiare col resto della compagine italiana in trasferta. Invece devo dire che la festicciola del dopo istituto (per pochi intimi come la stessa inaugurazione) s’e’ rivelata veramente all’altezza della situazione. Ben due buoni bevande a ciascun artista e persino dei tacos da ritirare da una roulottina parcheggiata abusivamente sul marciapiedi del retrobottega (tutto molto zingarescamente chic, ma gl’italiani, si sa’, sappiamo organizzare feste super chic) del bar Mandrake di Culver city e poi via tutti a sballarsi in pista ai ritmi super cool selezionati dall’immancabile ipod. Devo dire che ci siamo divertiti anche troppo (alla fine ero un po’ stanco). Poi, verso mezzanotte, le zucche si sono trasformate in Bianchine e tutti a casa.

Allora sorge ovvia e spontanea la domanda delle domande dentro la propria testolina da mero fruitore di questi eventi d’arte molto alta, da chi non sa (non puo’ sapere) come funzionano i meccanismi a certi livelli (anche se puo’ sempre provare ad immaginarseli): perche’ questa differenza di trattamento a discapito, ovviamente e come sempre, dei poveri italiani, cioe’ noi? Non sarebbe, forse meno inaccettabile che avvenisse il contrario (cioe’ mostra fica per i romani e di merda per i newyorkesi) quando i quattrini buttati per screditare noi stessi con queste velleitarie attivita’ di divulgazione di cultura sono sborsati da enti italiani?
Ma la provincia di Roma s’e’ sincerata della bonta’ del progetto prima di aderirvi? E poi, sempre dal famoso fuorviante pieghevole, s’apprende che oltre alla famosa fondazione romana ed all’Istituto Italiano di Cultura sono parte del progetto anche l’Hammer Museum (che e’ un signor museo privato) e LaXart (una no profit molto attiva in citta’). Ma a che titolo?
La prima risposta che mi sono dato e’ stata che cosi’ vanno le cose… che noi italiani cadiamo sempre male, siamo fatti cosi’ aiutiamo gli altri e dagli altri riceviamo calci nel culo e persino noi stessi siamo talmente abituati a questo stato di cose che spesso e volentieri ce li diamo tra di noi. L’ho pensato Il giorno successivo quando facendo la spesa non ho potuto fare a meno di notare che, mentre tutti I prodotti spagnoli, francesi, greci o tedeschi in mostra nel reparto salueria portavano in bella mostra il marchio del hecho en espana, produit francais, ecc, l’etichette di quelli italiani recitavano made in usa cosicche’ il Parmesan (Parmiggiano) era fatto a San Francisco mentre il Parma ham (prosciutto di Parma) veniva dal Winsconsin e la bresaola made in Los Angeles e il Roman pecorino cheese era made in Orange county. E gia’ noi siamo quelli li’. Sempre a pecorino (non il formaggio questa volta) e sempre zitti a scannarci tra di noi.
Ho persino voluto provare a prendere sul serio le parole di uno dei curatori che alla mia domanda “perche’ fare una mostra cosi’ in uno spazio cosi’ piuttosto che, per esempio, in un museo?” (Dopotutto avrebbero avuto le spalle coperte da istituzioni pubbliche quali la provincia. Avrebbero persino potuto coinvolgere un museo romano come MAXXI o Macro”) m’ha risposto (non testuale): “…e’ che avremmo dovuto rinviare il tutto… sai I musei americani non sono come da noi… qui’ hanno programmazioni di anni…” E, soprattutto, curatori ed organizzatori seri, aggiungo io.
Cosi’ quando un mio amico americano incredulo per quello che aveva appena visto all’istituto italiano di cultura, per telefono, m’ha detto un po’ scherzando (ma forse non troppo) che per lui l’unica spiegazione era che gli organizzatori di quella “cosa” dovessero essere al soldo di qualche istituzione di qualche paese nostro concorrente…, li’ per li’ c’ho riso su, poi, pero’ c’ho pensato tutta la notte. Quanto sarebbe stato meglio se quel fiasco dall’Italia l’avessero portato pieno di vino!

Manfredi Beninati
(maggio 2011)

Ps: notizia dal Corriere della sera di oggi: « Per conquistare la Cina Marco Polo diventa croato Zagabria ci scippa l’eroe del Milione! »

Salute!

© 2011/2015 Archivio Flavio Beninati / Manfredi Beninati

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