30 mar 2017

CONVERSAZIONE TRA MANFREDI BENINATI E LORENZO POGGIALI

Rintoccano le campane un segno (un colpo). Musica

LORENZO POGGIALI: Parliamo di Tiziano.

MANFREDI BENINATI: Tiziano chi?

LP: Ahah Tizianoooooo Ferro…? No…

MB: Tiziano Ferro…Non mi piace…no è bravo invece, è bravo è bravo.

LP: Tiziano l’artista invece?


MB: Tizianoooo Sclavi?

LP: Ahaha...

MB: Tiziano Vecellio.

LP: Tiziano Vecellio…diciamo Il Tiziano più conosciuto.

MB: Quello è Ferro, quello è Tiziano Ferro.

LP: Beh certo nell’epoca di internet ormai la gente si riferisce solo a quelli che può toccare con mano (virtualmente cioè)…

MB: Infatti.

LP: Ai divi pop.

MB: Iggy Pop…

LP: Divi Pop!...Anche Iggy pop si.

MB: Che c’entra Iggy pop con Tiziano Vecellio?

LP: Nulla infatti…Parliamo di Tiziano.

MB: Eh…cosa vuoi sapere di Tiziano?

LP: Perché ti piace?

MB: Lui o i quadri?

LP: I quadri…per il momento.

MB: Perché il nome è simile a Tintoretto, prima li confondevo sempre.

LP: E ora invece hai le idee chiare?

MB: Su Tiziano Ferro o Tizianooo…

LP: O Tiziano Terzani?

MB: Quello è un altro grande…un grande bobbista, no?!

LP: Bobbista?

MB: Si quello che va giù con il bob.
Mi piace perché è macabro…no dai non divaghiamo andiamo dritti al punto…inizia con le domande che hai preparato.

LP: Ma io non ho preparato nessuna domanda.

MB: E allora come facciamo a fare la conversazione se non hai preparato nessuna domanda?

LP: Una conversazione non si basa sulle domande…è una conversazione.

MB: Va bene ma almeno uno spunto ci vuole…

LP: Lo spunto è la mostra di Firenze.

MB: Quale?

LP: Il Prossimo progetto di ottobre.

MB: Eh…Cosa?

LP: Tu stai preparando dei lavori per Firenze che…ti piacciono, che ti stimolano per quale motivo? O non ti stimolano per nulla?

MB: Dovrei rispondere?

LP: Beh si…Potrebbe essere un buon inizio…

MB: Lo sai…stiamo facendo dei lavori prodotti ad hoc…insieme fondamentalmente quasi.

LP: Si. E’ una situazione infatti che mi piace molto, mi piace molto anche vederti disegnare in questo momento…mi provoca da un lato voglia e dall’altro anche una forma di invidia gentile.

MB: Cioè tu sei invidioso…

LP: Sono gentilmente invidioso…lo considero un grandissimo privilegio…è una cosa che mi sarebbe piaciuto fare…

MB: Perché mi hai chiesto di chi sono invidioso? Di nessuno. Perché mi hai chiesto chi sono i miei punti di riferimento? Devo rispondere?

LP: Mi sembravano domande banali…ma…se non ti conoscessi così bene, è una curiosità che avrei in effetti.

MB: Perché mi chiedi di Medardo Rosso? Perché mi hai chiesto di Medardo Rosso?

LP: E chi ti ha chiesto di Medardo Rosso?

MB: An no pensavo…

LP: Stavamo parlando dei disegni…Secondo te c’è una relazione tra Medardo Rosso ed il disegno?

MB: Si. Totalmente. Il disegno ha un solo punto di vista, è bidimensionale, Medardo Rosso ragionava bidimensionalmente.

LP: Questo è il motivo per il quale vorresti tagliare in due (sezionare esattamente a metà) quella scultura bellissima che abbiamo appena portato integra dal tuo studio di Palermo in fonderia il cui soggetto è un cavallo: per avere, cioè, una scultura con un unico punto di vista valido?

MB: Le sue sculture, nonostante siano tridimensionali, hanno un unico punto di vista valido, che deve essere necessariamente quello.

LP: Ne ho viste di recente alla GAM di Milano…

MB: Poi c’è il bonus che puoi girarci attorno ed avere altre sculture, ma la sua scultura è quella che vedi frontalmente.

LP: Quindi è l’aspetto che ti interessa di più?

MB: No, rispondo a come si relaziona Medardo Rosso con il disegno: la lettura avviene frontalmente in entrambi i casi.

LP: La scultura di Medardo Rosso…non è solo bidimensionale.

MB: C’è il caso che lui lascia esistere…tranne il caso di Madame X…la scultura più importante del novecento secondo me…il viso di una donna quasi a uovo. Per esempio Brancusi ne fa una che ha più o meno le stesse caratteristiche…sembra quasi un uovo che lui chiama uccello in volo quello, di Madame X, è l’unico caso in cui Medardo Rosso vede la scultura tridimensionale.
Poi mi stai chiedendo di Andrea Pazienza…

LP: Questo (un libro di Andrea Pazienza appena acquistato in una edicola ndr) lo hai preso per ringraziare l’edicolante per averci indicato un robi-vecchi…

MB: Ah si si…vero vero…per non dargli l’impressione di aver perso tempo.

LP: Quindi secondo te un artista che si esprime oggi è quantomeno auspicabile che abbia ben presente quello che è successo fino ad ora.

MB: Non necessariamente…nel mio caso si. A me piace.

LP: Come ti rapporti a Carrara e Pietrasanta? Insomma a quest’area geografica in cui il lavoro sulla materia è un valore, in cui emozione, gesto, tradizione e materia annusata, vissuta sono un tutt’uno e rappresentano una disciplina reale?

MB: Carrara, Pietrasanta…questa zona insomma è stimolante perché lavorare in studio, nel tuo studio intendo, partendo da zero e portarli a compimento è molto faticoso, quindi, ogni tanto, avere la cooperazione di persone che sanno il fatto loro, in questo caso in fatto di scultura in particolar modo, è molto confortante perché sono lavori più concettuali che fisici.

LP: L’aspetto fisico è dunque giusto che venga demandato…

MB: Si ogni tanto si…così si velocizza il tutto e poi vengono fuori anche cose casuali, quindi questa esperienza di Pietrasanta e Carrara mi sta piacendo moltissimo.

LP: Tu, generalmente, hai sempre fatto tutto da solo?

MB: Si, sempre fatto tutto da solo.

LP: Ma questo è dovuto al fatto che tu hai sempre fatto soprattutto lavori bidimensionali o da cosa?

MB: No, ho fatto anche quelli tridimensionali ma li ho sempre fatti da solo in studio…

LP: Dunque possiamo dire, guardando la tua carriera, che i lavori scultorei sono numericamente minori?

MB: Si, esatto, numericamente minore. In questo caso mi sono particolarmente dedicato alla scultura grazie alla frequentazione dei Poggiali e dell’aerea geografica intorno a Pietrasanta, con tutta la tradizione che ne deriva, anche e soprattutto in termini emozionali…questa mostra è realmente il frutto dell’armonia e della collaborazione fattiva, reale passo dopo passo, tra il sottoscritto e i galleristi…è una mostra costruita con te…

LP: Ti è sempre interessata la scultura?

MB: Si certo…come no!!!?? Moltissimo.
Le istallazioni sono un altro momento in cui ho avuto la cooperazione di altre persone…soltanto però in quelle più complesse con un progetto alle spalle, pensato e sviluppato nel tempo: quella della Biennale di Venezia del 2005, per esempio, è stata fatta a Cinecittà addirittura e poi riassemblata nel padiglione di Venezia…ho realizzato il progetto in ogni dettaglio delegando la realizzazione pratica a dei professionisti anche grazie a grandi finanziamenti che mi erano stati messi a disposizione che poi lo hanno montato sul posto, oppure un’altra istallazione che mi viene in mente è quella da James Cohan a New York che era un progetto con una stanza da costruire che io ho addirittura trovato realizzata il giorno che sono arrivato a New York…Abbiamo portato avanti un carteggio con i tecnici per qualche tempo e poi loro hanno realizzato esattamente tutto in dettaglio: dimensioni, spazi, proporzioni…

LP: Un’istallazione per te cosa rappresenta? E’ il modo migliore con il quale tu ti interfacci al mondo dell’arte?

MB: Innanzitutto quelle fatte con un progetto ampio e dettagliato sono sempre di grande impatto per il pubblico, soprattutto per il pubblico (diciamo) non colto, perché, appunto, raffigurano ambienti e questi sono luoghi in cui ciascuno di noi trascorre il proprio tempo…

LP: Sono familiari…

MB: Certo!

LP: Cioè familiare l’idea che esista un ambiente…

MB: Certo! Esatto! Il fruitore lo legge quasi come un gioco ed essendo poi le istallazioni piene di dettagli, oggetti, situazioni, cristallizzazioni di momenti vissuti da essere umani sperimentati in quell’ambiente specifico, ci si può giocare come intrattenimento tipo la settimana enigmistica oppure anche un rebus…la terza valenza: l’idea cinematografica che deriva da questa esperienza perché tu puoi trovare una tua narrativa.

LP: Questo deriva anche dalla tua esperienza, dalla tua passione per il cinema…

MB: Si si ha influito nella mia decisione di fare questo tipo di istallazioni, anche perché ormai per istallazione si intende qualsiasi cosa…
C’è il rischio, infatti, che si fraintenda il significato di istallazione fino ad estenderlo a, per esempio, anche solo ad una scultura…
Erratamente, però, a mio modo di vedere: per esempio il lavori di Zhivago Duncan presentato a Pietrasanta ieri sera (Six degrees of Separation ndr) non è un’istallazione, eppure sono sicuro che per molte persone è un’istallazione. E’ tale solo nel senso che quel lavoro è stata istallato in quell’ambiente. L’istallazione è un lavoro composto da elementi praticabili, che sono cioè intorno a te o che hanno bisogno di uno spazio per relazionarsi.

LP: Quindi secondo te è sempre ambientale l’istallazione?

MB: Si. Credo anche che in italiano ci sia differenza tra istallazione e installazione. Installazione: installare qualcosa in loco.

LP: Ho controllato più volte: spesso viene dato come sinonimo.
Le istallazioni si relazionano con i dipinti ed i disegni?

MB: Si, vengono prima le istallazioni dei dipinti, ma a volte anche il contrario. Per esempio nella quadriennale del 2003 è stato esposto un disegno molto grande da cui poi, invitato alla Quadriennale del 2008, ho tratto l’istallazione, visibile dietro una porta come spessissimo accade nelle mie istallazioni. Ci sono delle istallazioni che sono come delle sculture: quella di Atene, di cui parlavamo proprio in questi giorni, era una casa crollata in una piazza quindi la gente poteva girarci attorno e viverla come una grande scultura. Però normalmente a me piace dare quest’idea di bidimensionalità attraverso un vetro.

LP: Generalmente le istallazioni sono fruibili attraverso un’interfaccia, non sono, vale a dire, calpestabili?

MB: No, non sono calpestabili, sono fruibili attraverso un’interfaccia: tu rimani fuori e l’interfaccia è una superficie bidimensionale piatta che può essere la superficie di una porta, una finestra o una cornice, quindi c’è questa doppia valenza di bidimensionalità e tridimensionalità insieme nel momento in cui tu avvicini gli occhi alla superficie.
Giornalisti autorevoli hanno spesso frainteso, su riviste specializzate (Art Forum ecce cc), poiché si sono fermati alla superficie del vetro, pensando che quello (vetro sporco per esempio) fosse il lavoro, citando l’idea di ologramma.

LP: Come se fosse una foto che si scatta da 5-6 metri per cui si vede solo il lato bidimensionale?

MB: Si, il concetto opposto della camera oscura di Alberti: si fissa l’inquadratura attraverso delle lenti, per cui anche se ti muovi l’immagine rimane fissa sullo specchio, mentre in questo caso avvicinandoti al vetro e muovendoti lungo la superficie del vetro cambi la prospettiva sull’istallazione. E’ come avere tante versioni di un quadro, tante implicazioni, a me piace moltissimo farle anche per capire delle cose, in modo da, io stesso, sfruttare queste conoscenze in altre attività che possono anche essere quella del dipingere o disegnare.

LP: L’essere umano è mai entrato in queste istallazioni?

MB: Si, mi viene subito in mente quella di Salonicco dove c’erano due manichini, un simulacro dell’essere umano, oppure sempre allo stesso modo negli Hamptons a New York dove c’era un uomo di sabbia, oppure a Liverpool1, per la Biennale, ci sono scatti fotografici dell’istallazione che consisteva in un salotto molto grande, di almeno 10-12 metri per altrettanti, nel quale al fondo c’era una porta aperta su di una stanza da pranzo e dall’altro lato una porta-finestra aperta sul giardino oltre il quale c’era un tramonto tropicale. Tutto questo era visibile dalla strada. Noi abbiamo fatto degli scatti dell’istallazione vuota e degli scatti dell’istallazione vissuta da tre essere umani: padre, madre e figlio che compivano delle azioni quotidiane molto comuni, per esempio si vedeva la moglie che versava il tè in sala da pranzo, l’uomo seduto in sala più vicino a noi che leggeva il giornale, il loro figlio proprio davanti alla finestra, da cui si usufruiva dell’istallazione, disteso per terra o che giocava con dei martelli costruendosi un teatro.

LP: Tu hai agito da regista?

MB: Si. Da queste fotografie abitate da essere umani abbiamo realizzato dei manifesti che sono stati affissi in giro per la città, ovunque si vedeva questo ambiente che sarebbe stato del tutto reale se non fosse stato per il tramonto tropicale che a Liverpool non è un accadimento ovviamente possibile. Uno di questi poster era appeso al di sopra di una delle aperture dalle quali si vedeva l’istallazione, tale manifesto ritraeva l’ambiente, immediatamente sotto questo stesso luogo vuoto. C’erano i resti della scena che erano ritratti nel poster. Si trattava di cartelloni pubblicitari pieni di tante pubblicità affisse una sull’altra, la finestra che permetteva di vedere l’ambiente era ricavata su una fessura di questo enorme cartellone pubblicitario. Guardando attraverso era possibile vedere quella stessa scena qualche minuto dopo: il giornale che stava leggendo l’uomo era adesso per terra, le tazzine del tè non erano più dove si trovavano nel poster ma avevano cambiato posizione perché il tè era stato consumato, gli attrezzi che il bambino stava usando erano in un altro luogo ed il teatrino aveva registrato progressi di costruzione.



Per meglio comprendere il lavoro di Beninati la Biennale di Liverpool, prendendo spunto dall’istallazione ivi presente, si esprime così: 
Le installazioni di Manfredi Beninati (1970, Palermo) ci conducono in mondi immaginari che richiamano dimensioni oniriche e ricordi sbiaditi. Gli interni occupati da arredi del vivere quotidiano sono vacui e irraggiungibili e stuzzicano la curiosità dello spettatore con le loro storie appena accennate.In To Think of Something (2008), opera realizzata appositamente per la biennale di Liverpool dal titolo MADE UP, Beninati mostra un appartamento segretamente abitato. Alle finestre sbarrate di un edificio abbandonato è appeso un cartello, ma una fessura lascia intravedere il riflesso rubato di una scena domestica.

Attraverso la facciata ostruita l’osservatore intravede il soggiorno di un appartamento borghese. La stanza, dall’arredamento confortevole, sembra essere stata da poco sgombrata: i resti della colazione sono sempre sul tavolo e a terra, vicino al divano, è adagiato un giornale mezzo aperto. Dietro il salotto è situata una porta leggermente socchiusa da cui si intravede una sala da pranzo, mentre da una finestra l’osservatore gode della scena alquanto sbalorditiva di un vero e proprio tramonto tropicale. Come la scenografia di un palcoscenico appena liberata o un romanzo privato dei suoi personaggi, questa installazione di Beninati fa da cornice a una ricca varietà di incontri immaginari.Che si tratti di pittura, scultura o installazione, l’opera di Beninati stimola il ricordo dell’osservatore e gli strumenti della memoria, in particolar modo la fotografia. La sua prima installazione, realizzata nel 2005 per il padiglione italiano della Biennale di Venezia dal titolo “Taking notes for a dream that begins in the afternoon and continues through the night ...” (“Appunti su un sogno che inizia di giorno e continua nella notte…”) attinge in parte dai ricordi della casa della bisnonna, luogo ormai ricoperto da piante ed erbacce. Il punto di forza dell’opera risiede nella trasformazione della memoria personale in un’esperienza universale. Sin dall’inizio la scena risulta stranamente familiare – suscitando infatti l’impressione di entrare nel mondo vacuo del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa - ma allo stesso tempo sfuggente in modo quasi irritante, preannunciando ad ogni passo l’ingresso in un mondo fatto di sogno e immaginazione.Freud paragonava spesso il subconscio a un insieme di vestigia antiche custodite in una tomba che prima o poi un archeologo avrebbe scoperto e interpretato. Anche gli interni dissimulati di Beninati parlano il linguaggio dell’archeologia e del subconscio. Allo stesso modo dei resti di Pompei ed Ercolano le sue opere rivelano i reperti della vita quotidiana, minuziosamente conservati, e attribuiscono all’osservatore il ruolo di archeologo, ricompensandolo con l’eccitazione della scoperta e spingendolo a cogliere le storie racchiuse nei suoi oggetti. L’interpretazione delle installazioni di Beninati è come quella dei sogni: veniamo trasportati per un periodo di tempo in una dimensione effettivamente reale, ma è solo grazie a un’analisi del dettaglio (si pensi al tramonto tropicale a Liverpool) che è possibile rendersi conto di avere a che fare con una realtà parallela immaginaria, filtrata dal prisma del ricordo subcosciente e della fantasia irreale.




LP: Queste scene contraddistinte da una dimensione temporale progressiva che utilità hanno? C’è un tentativo di far si che il fruitore si ponga delle domande, che non si limiti ad un atteggiamento apatico, acritico dinanzi all’opera d’arte? Che, insomma, non si limiti ad un giudizio estetico superficiale “mi piace, non mi piace”? Il tuo obbiettivo è quello di condurre lo spettatore ad un approfondimento?

MB: Due punti: secondo la mia opinione, come hai detto poc’anzi, l’idea che qualcuno non si fermi o non si interroghi e passi oltre derubricando semplicemente l’istallazione come un vetro bidimensionale, è quasi una gioia poiché l’idea di fare selezione mi appaga moltissimo. Le cose te le devi guadagnare: anche il semplice scoprire che dietro quella finestra c’è un mondo che ti si rivela con meraviglia, non diresti mai, intendo, che dietro un vetro lungo una parete in un museo modernissimo ci sia, o possa essere, una sala del ‘700 sporca ecc cc…La meraviglia e lo stupore rappresentano una forma di poetica…Ma no in realtà no…mi piace, bensì, l’idea di mostrare alla gente che loro non sono in controllo, che non hanno la padronanza del mondo. Le persone danno per scontate tante cose che in realtà non sono come loro danno per assodato siano. Mi piace fare selezione questo è il punto, non mi piace l’idea consumistica che in questo mondo sia tutto calato dall’alto e nessuno si prenda alcuna responsabilità e che tutto arrivi uniformemente più o meno a tutti con la conseguenza della messa in crisi delle relazioni interpersonali. C’è gente che ha più disponibilità di qualcosa che può essere tempo, denaro, accesso all’informazione, qualunque cosa, e gente che ne ha meno, già questo crea discrepanza all’interno della società. Tornando all’argomento del tempo, al trascorrere del tempo, del quale tu mi chiedevi: al MACRO la sera che ci siamo conosciuti in occasione dei martedì critici ad un certo punto la direttrice del Macro stesso, Federica Pirani, ha affermato di riscontrare nel mio lavoro, con riferimento in particolare a quello pittorico e dei disegni, tanti punti in comune con gli artisti del Rinascimento, i quali, mentre dipingevano, erano a loro dire ossessionati, una sorta di assillo collettivo, dal come sarebbe cambiato il colore sulla superficie del quadro, in cento-duecento anni. La Pirani, infatti, metteva in discussione la pratica del restauro di una pittura rinascimentale contestandone in tanti casi l’opportunità, poiché era stato previsto dall’artista stesso una sorta di lenta metamorfosi. Sosteneva che, per esempio, nel caso dei disegni grandi (quelli che avete voi come Domenica…ndr) io andavo direttamente ai 200 anni successivi: c’è dunque questa dinamica temporale che mi interessa molto, rappresentata sulle mie pitture infatti da strati di velature, di sgocciolature, di cancellature, di elementi che si sovrappongono, che svaniscono e poi ritornano, è un gioco temporale: giocare a prevedere l’invecchiamento che più o meno era quello che asseriva la direttrice.

LP: L’aspetto dell’istallazione che registra via via passaggi temporali diversi va in questa direzione…

MB: Si esattamente, è la stessa cosa che avviene per i miei quadri, i miei disegni…

LP: Anche per questo a Firenze ci saranno due istallazioni…

MB: Si se arriviamo a farle…l’una non è completa senza l’altra…o perlomeno hai spunti diversi, percezioni che si rimandano vicendevolmente, come è accaduto per la Biennale di Mardin in Turchia (sviluppata anche in Siria ed Iraq): lì avevo due ambienti uno nel palazzo principale della Biennale ed uno lungo una stradina della Kasba. Nel primo avevo ricostruito un ufficio all’ingresso del quale compariva una targa con scritto “Alì Kaya (come dire Mario Rossi in Italia) progettista di razzi ed ufo”.

LP: Chi è il committente di uno che fa Ufo?

MB: Eh…attraverso una finestrina erano scorgibili delle scrivanie, dei tavoli, sui quali si trovavano modellini di razzi, missili, Ufo, oggetti volanti, realizzati anche di cartone, era come un’ossessione che lui aveva, possedeva delle fotografie di Ufo, di navicelle spaziali, appese alle pareti, progetti disegnati a mano sul tavolo. L’altro spazio inscenava, invece, casa sua ed era, come quasi tutte le case di Mardin, una casa scavata nella roccia lungo questa  stradina con soltanto un letto al fondo. Attraverso la buca delle lettere (tieni conto che noi abbiamo preso una grotta qualsiasi reale) del portane, sul quale era scritto Ali Kaya, era possibile vedere questo letto in fondo alla grotta con dei disegni e delle fotografie di Ufo, oltre a tantissimi Ufo appesi a mezz’aria realizzati con dei piatti di metallo che gli abitanti di Mardin utilizzano per mangiare, attaccati l’uno all’altro a due a due (a for-
mare per l’appunto gli Ufo). Lui era talmente ossessionato dagli Ufo, dall’aereo-ingegneria, ma privo dei più elementari rudimenti per realizzarli, che, non solo aveva aperto questo negozio, evidentemente sprovvisto di clienti, ma si era anche ricreato un mondo a casa, il posto più spoglio del mondo, nel quale c’erano solo un letto ed Ufo. Era chiaramente una persona alienata: viveva in un mondo suo.

LP: Quanto incide nei mondi che tu descrivi la tua passione per la proto-storia? Quello che viene prima della storia che non è preistoria? Questa proto-storia è rintracciabile nei tuoi dipinti, disegni?

MB: Recentemente più per scherzare che per altro si. Questo mi interessa come altri aspetti nei quali mi imbatto quotidianamente. Sono molto curioso, lo sono sempre stato fin da piccolino.

LP: Quindi i soggetti dei tuoi lavori sono i più disparati?

MB: Si, non sono un integralista, non sono monotematico.

LP: E neanche monoteista?

MB: Si, quello si, in realtà io sono egoteista.

LP: Cioè credi in te stesso?

MB: Si, esatto, e basta.

LP: Qual è il personaggio del mondo dell’arte, tu che hai avuto modo di frequentare palcoscenici prestigiosi, che ti è rimasto più impresso? Può essere Sun Xun? Con il quale tu stai portando avanti un lavoro a quattro mani?

MB: Può essere si.
Mi vengono subito in mente Kiki Smith e Jaff Wall, proprio loro due sono artisti che non soltanto ammiro moltissimo, ma anche umanamente sono fantastici, entrambi miei collezionisti tra l’altro.

LP: Nel 2005 l’istallazione alla Biennale di Venezia è stata fatta, abbiamo detto, secondo i tuoi desideri, una pratica nella quale ti ritrovi, mentre la partecipazione del 2009 t’ha soddisfatto meno, se così si può dire?

MB: Nel 2005 avevo i soldi di un Premio, che erano stati stanziati, da me, per finanziare la produzione dell’istallazione, il cui costo era molto alto. Si trattava della prima volta che facevo un’istallazione poiché i miei galleristi di allora erano più propensi ad avere, ovviamente, arte-oggetto più adatta alla vendita: pitture, sculture, disegni, collage. Tieni conto che avevo iniziato solamente nel 2003 la mia carriera di artista per una scommessa fatta nel dicembre del 1999 con mio fratello Flavio consistente nell’affermazione da parte mia che da lì a poco non solo sarei diventato un artista, ma avrei partecipato anche, da lì a qualche anno, alla Biennale di Venezia. Così dal 2000 mi sono chiuso in studio a Londra a lavorare come un pazzo ma, prima che il percorso cominciasse a prendere forma sotto l’aspetto delle relazioni ho impiegato qualche tempo, sebbene il mio studio sia stato frequentato da subito da critici e galleristi che hanno mostrato immediatamente grande interesse. Ci voleva una programmazione in termini di prodotti da mostrare. Attraverso il Premio per la giovane arte Italiana che avevo vinto, legato al Museo MAXXI, che era in qualche modo gemellato con la Biennale, sono stato invitato ad esporre proprio a Venezia. Grazie a questo Premio ho avuto la libertà di realizzare questa istallazione che, al termine della Biennale, è stata riallestita al MAXXI, e, presto, immagino nel 2017, sarà di nuovo esposta proprio al museo di Roma poiché è loro intenzione esibire via via la loro collezione, della quale fanno parte anche dei miei disegni su tavola acquisiti a suo tempo. I curatori erano molto soddisfatti del progetto: per la realizzazione a Venezia ho così contattato il mio amico Matteo De Laurentis, il produttore cinematografico, il quale mi ha messo in contatto con il miglior scenografo che lui conoscesse, si trattava di Francesco Frigeri, quell’anno mi pare vincitore anche di un Oscar, a cui ho sottoposto i miei disegni progettuali da artista, a sua volta lui ha contattato i suoi carpentieri di fiducia sottoponendoli i miei progetti tradotti nel frattempo da scenografo, che hanno realizzato tutto, minuziosamente ed in modo stupefacente, in legno e vetroresina.
Una volta finito il lavoro vicino Cinecittà, hanno raggiunto il padiglione di Venezia su di un barcone, facendo precedere il loro arrivo da innumerevoli telefonate per le coordinate contribuendo a incrementare la mia attesa, attraverso un piccolissimo canale di servizio, è stato per me una fiaba vederli arrivare, ho realmente vissuto l’emozione di un bambino. Nei giorni del mio soggiorno veneziano mi sono divertito a lavorare con Lara Favaretto e Loris Cecchini.
Con la Favaretto in particolare abbiamo vissuto insieme almeno dieci giorni, certi momenti insieme abbiamo completato la mia istallazione rendendola vissuta ed abbandonata per almeno 200 anni grazie a polvere, erbacce, ragnatele, vetri rotti, escrementi di uccelli, sporcare i vetri…
Poi c’è stata ovviamente la ciliegina del Premio del Pubblico che è stato scelta come opera migliore, un altro premio in denaro.

LP: Qualcuno di preparato nel mondo della critica direbbe che l’aspetto delle istallazioni rafforza il telaio concettuale del tuo lavoro…Non so se condividi quello che accade: tanta critica considera la pittura un esercizio decorativo fuori tempo.

MB: La pittura è e rimane l’arte. L’arte è pittura. Però, purtroppo, alle coordinate temporali in cui viviamo non ci sono fruitori dell’arte con sufficiente cultura per la pittura.

LP: Fanno prima ad allinearsi, vuoi dire?

MB: Si, la pittura è vista come quasi obsoleta, perché in giro per il mondo negli ultimi trent’anni si è visto di tutto, ma anche da prima, da Manzoni (la scatola di merda) in poi, quindi il moderno è quello, con la conseguenza che la pittura è vista come la classicità, la tradizione. Negli ultimi anni, invece, c’è stato il ritorno alla pittura anche attraverso la YBA, il movimento che ha rimesso benzina al motore dell’arte.

LP: Ti senti più vicino a loro, rispetto alle esperienze italiane?

MB: Assolutamente si!! Assolutamente si!! Mi piacciono molto di più!!

LP: Li senti anche più vicini?

MB: Si. Non mi piacciono di più in termini di produzione, di lavori.

LP: Non sono più esteticamente appaganti loro, vuoi dire?

MB: No, anzi, nella maggior parte dei casi sono artisti di minore qualità, mi piacciono di più in termini di freschezza, di coraggio, di strafottenza, per la totale mancanza di riverenza.

LP: Per essere irreverenti nel mondo dell’arte si devono mostrare scene di sesso, di violenza sfacciata?

MB: No, quello è satanismo, come Nitsch. E’ chiarissimo: fa il crocifisso capovolto con il sangue, quello è satanismo e basta, è chiaramente un satanista.

LP: L’irriverenza, dunque?

MB: L’irriverenza non ha nulla a che vedere con il soggetto, con il lavoro finito. Quello di cui parlo non è il lavoro della YBA che ho frequentato negli anni ’90 quando vivevo a Londra, bensì il loro atteggiamento nei confronti della vita, come la affrontano: tutto è tremendamente importante, ma, allo stesso tempo, può essere fronteggiato in maniera più spavalda e leggera, senza tenere a mente delle regole, in poche parole libertà.

LP: Senza il fardello del senso di colpa che deriva dal vivere in Italia, del retaggio cattolico accentuato dalla presenza del Vaticano? Non c’entra nulla?

MB: Probabilmente ha a che fare anche con quello.

LP: In Inghilterra puoi osare…quindi tu ti senti più vicino a quella cultura lì per questo motivo?

MB: Si. Assolutamente si!

LP: Piuttosto che a una cultura bacchettona (che si respira da queste parti)…un termine che utilizzi spesso.

MB: L’Inghilterra è una realtà isolata, non va assimilata all’Olanda per esempio, in generale quando sento discutere di culture nord-europee si fa questa associazione ma si tratta di un approccio forviante. In Inghilterra vivi in maniera libera, non si ha nessun fardello, nessuna regola da tenere a mente. L’Olanda, invece, per esempio è, da questo punto di vista, molto peggio dell’Italia, in Olanda sono protestanti, iper-religiosi, la cultura protestante olandese è in questo paese ancora più costrittiva. Le regole da seguire sono ancora più rigide. Non sto dicendo con questo, sia chiaro, che gli artisti migliori siano quelli inglesi.
Ho in comune con la YBA (Young British Art) l’assoluta libertà sia di visione che di interpretazione della vita. Non ho dogmi, così come non ne hanno loro.

LP: Quindi, “che soggetti preferisci” è una domanda che alla luce di queste tue ultime considerazioni risulta particolarmente fuori luogo.

MB: Esattamente. Esattamente.

LP: Tutto ciò che vediamo è una sorpresa dunque, lo è imbattersi in un’istallazione che non ti saresti aspettato fosse in quel modo, così come rappresenta uno stupore non vedere 15 lavori su tela ma imbattersi in una serie di sculture in bronzo, marmo, resina, resina dipinta e di lightbox. E, forse, è anche per questo che dovendo parlare di artisti italiani preferiti l’altro giorno abbiamo preferito mangiare subito la pizza perché non avevamo nessuno da citare?

MB: Ci sono alcuni che mi vengono in mente: Cuoghi mi piace, non tanto il suo lavoro quanto il suo atteggiamento investigativo, val a dire il suo tentativo di liberarsi di tutto questo fardello rappresentato dalla tradizione, oppure l’essere allineato, l’essere sempre riconoscibile.

LP: Però l’artista deve essere riconoscibile! O no?

MB: Deve essere riconoscibile per avere successo sul mercato, perché pensa per esempio Ed Rusha o Alex Katz che fanno gli stessi quadri da sempre. Il collezionista che compra per investimento vuole una copia di quello che ha visto, vuole che sia chiaro…

LP: Vuole il simbolo?

MB: Anziché collezionare la firma (l’autografo) che ovviamente non costa tanto vuole…

LP: Vuole il simulacro?

MB: Esatto, vuole l’autografo sul simulacro. E quindi ci sono tutti questi quadri più o meno uguali con il risultato, per esempio, che nella storia dell’arte troviamo un personaggio come Francis Bacon sempre più considerato quale icona pazzesca a me non piace. Non c’è evasione, non c’è sperimentazione, ha sempre fatto opere tutte uguali, non c’è traccia di ricerca di altre strade, è fissato su quella cosa e basta, lavora per la Marlborough da anni, loro vendono lavori tutti uguali facendo affari d’oro e proprio quelli continuano a chiedergli e lui esegue. Questi sono artisti che mi spaventano. Mi piace invece moltissimo Michel Raedecker, ovviamente sconosciuto ai più e Folker De Jong. La pittura, poiché si tratta di un pittore, di Michel Raedecker è bastarda: non solo olio su tela, ma anche fili di cotone che compongono disegni, tracciano elementi iconici. Mi piace moltissimo perché prima di tutto ha una ricerca estetica molto affine alla mia ed inoltre è molto ben eseguita, oltre a questo non realizza lavori mai uguali a se stessi, è riconoscibile se segui bene il suo lavoro.

LP: E’ corretto, parlando dei tuoi ultimi lavori su tela, affermare che siano scomparse le velature che hanno caratterizzato la tua esecuzione per tanti anni?

MB: Le velature richiedono molto tempo, cosa che ultimamente non ho avuto. Ho sempre tenuto i quadri per anni in studio riprendendoli a poco a poco, avendo dunque modo di poterle realizzare. Voglio dire che non sono assolutamente scomparse dalla mia poetica ma che si tratta solo di ragioni di assenza di tempo.

LP: Quindi solo una questione pratica?

MB: Si, prima ne iniziavo 50/100 tutti insieme, poi via via che avevo una mostra ne completavo una decina o quelli che servivano.

LP: Può verificarsi, dunque, il caso che quelli che adesso vedo senza velature un domani le abbiano?

MB: Si, certo. Su quelli che erano in mostra a Firenze lo scorso anno, per esempio, può essere che, qualora non venduti, ci intervenga nuovamente.



A proposito dell’istallazione alla Biennale di Liverpool giova citare il brano seguente:
“(...) Cio’ nonostante/ tuttavia alcuni dei pezzi che amo di piu sono migliori visti la sera/notte.
Per vedere l’installazione dell’italiano Manfredi Beninati devi guardare attraverso una finestra che si apre in un edificio fatiscente/abbandonato nel centro della citta’. Rimanendo fermo al freddo e al buio ti confronti con una visione di perfetta/completa felicita’ umana - un salotto briosamente illuminato con un divano e delle sedie confortevoli, tappeti, libri, fiori e una vista dalla finestra su un tramonto tropicale. Giornali e giocattoli, una casa delle bambole e gli strumenti che il padre sta usando per costruire un teatrino sparsi disordinatamente sul pavimento.
Ma proprio mentre assorbi tutta questa visione qualcosa si muove e per la prima volta noti una figura sinistra che osserva questa scena dall’altra direzione. E’ necessaria una frazione di secondo per realizzare che cio’ che stai vedendo e’ la tua immagine riflessa nello specchio appeso nella parete posteriore/opposta. Beninati mostra/ ci illustra efficacemente cosa deve significare trovarsi ad osservare dall’esterno; vedere la comodita’, il calore, l’amore e la sicurezza ma non esserne parte. Meraviglioso. (...)”
- Richard Dorment, The Daily Telegraph, 22 September 2008



LP: Hai realizzato per la mostra di Firenze 9 formelle in creta che sono divenute in resina / resina colorata, ed alcune in bronzo, qual è la trama che lega questi bassorilievi?

MB: La trama che li lega? ovviamente nessuna. Se non il gran caldo dello scorso agosto e poi il piacere di lavorare con voi e con i Del Giudice [ndr: fonderia] alla realizzazione di varie versioni in materiali diversi. Apprendere nuove tecniche e constatare come la materia muti la percezione della forma anche quando questa rimane immutata.
PS: l’idea di lavorare a dei bassorilievi mi nacque durante la visita al Museo Canonica di Villa Borghese, ricordi? Lo scorso luglio?

LP: Si certo, ricordo molto bene, ricordo inoltre che nessuno conosceva quel luogo e questo aspetto amplifica il senso di meraviglia e di scoperta.
Quello che narri per immagini è casuale o ogni elemento è come un frame di un corto?

MB: E’ casuale esattamente come un fotogramma di un corto.
La narrativa te la crei tu a tuo piacimento. Esattamente come nella vita. Come anche nelle mie installazioni e come in una settimana enigmistica per autistici.

LP: Ok, ma i frames non vengono montati in modo coerente affinché raccontino? Nel cinema, intendo?

MB: Si, ma possono essere montati seguendo la sequenza che si preferisce e ovviamente tutto il significato cambia a seconda della sequenza del montaggio. D’altra parte il cinema si fa in tre passi: scrittura, scelta degl’interpreti e montaggio.
La regia è un in più.

LP: I lightbox che abbiamo realizzato fanno citare perlopiù Jeff Wall. La vostra conoscenza ha inciso nel taglio, nella poetica o come ti spiegheresti l’accostamento che molti, vedendo i lightbox, fanno?

MB: Quello che accomuna me e Jeff è un’affinità elettiva in termini di visione, percezione e resa. Il fatto che poi i nostri lavori appaiano così stilisticamente diversi è dovuto alle differenti, distantissime tra loro, tradizioni dei luoghi in cui siamo cresciuti (lui a Vancouver, io a Palermo) oltreché al caso. Lui ha iniziato la sua carriera artistica con la fotografia ed ha continuato con questa pratica negli anni. Io seppur da sempre appassionato di fotografia, ho iniziato, più per povertà che per altro, col disegno in bianco e nero che poi è diventato pittura ad olio dai colori accesissimi per par condicio, e poi ancora altro.
Inoltre, se non sbaglio, la fotografia retroilluminata (lightbox, appunto) come medium è stata “inventata” proprio da lui, o per lo meno lui, Jeff, ne è certamente uno dei pionieri, e dunque è facile pensare a lui vedendone una.
E comunque, ripeto, lui ed io siamo legati da un’intesa immediata in fatto di immagini e di narrazione per immagini. Ed infatti lui stima il mio lavoro che pure, normalmente, non ha, apparentemente, alcun punto di contatto col suo. Io, ovviamente adoro il suo lavoro ed il suo approccio cinematografico che è forse quello che più mi accomuna a lui: costruire un film con uno scatto, con una pittura, con una installazione; mettere in scena tutti gli elementi necessari per una narrazione filmica senza, però, imporre un punto di inizio nè uno di fine alla storia.

LP: Molto bello.
Molto piacevole da leggere.
Quadrifoglio 290949?

MB: Li ho giocati al lotto quei numeri, sai? Quando ti capita che uscendo da un ristorante che si chiama “i 13 gobbi” (che tra l’altro in fiorentino si potrebbe tradurre ne “i 13 juventini”) ti ritrovi davanti ad una installazione proprio mentre il tuo gallerista ti sta chiedendo di farne un’altra due giorni prima dell’inaugurazione... beh allora quello è sicuramente un segno del destino, o no? Naturale, quanto estemporaneo, allora il gioco che ne è venuto fuori. Fotografare la catasta di vecchi mobili che attendevano di venire ritirati dalla nettezza urbana (che a Firenze hanno, chissà perchè, voluto chiamare “quadrifoglio”) su uno striminzito marciapiede e quindi riassemblarla in una stanzetta della galleria. Il numero nel foglio attaccato su quei mobili (290949, appunto) l’avremmo, il giorno seguente, ritrovato in parte inscritto su uno dei bassorilievi fatti un paio di mesi prima. 2029 è l’anno in cui secondo un tale di nome Ray Kurzweil (che è il capo di Google Engineering) avrà luogo “singularity”. Non ti dirò di cosa si tratta, però. Lascio che sia tu stesso, mosso dalla curiosità, a scoprirlo.

LP: Che storia!
Da divorare!
In che modo queste due istallazioni rimandano l’una all’altra?
C’è ancora l’aspetto cronologico?

MB: Se non ci fosse “l’aspetto cronologico” la vita non esisterebbe che per un istante cioè non esisterebbe in quanto vita intesa come trascorrere del tempo, invecchiamento o anche, al contrario, ringiovanimento.
Dunque... ovvio che ci sia “ancora” l’aspetto cronologico: una l’ho fatta i primi di settembre, l’altra è apparsa sei, sette settimane più tardi. E poi, prese singolarmente... nella prima il passare del tempo è documentato dalle fotografie in mostra che ritraggono l’ambiente occupato da Roberto che al momento non è più presente nella scena; nella seconda... anche lì, in realtà la scansione del tempo è delegata alla foto appesa proprio accanto alla porta della stanza in cui è stata riallestita. Come vedi, con un briciolo d’arguzia, puoi sempre motivare ogni cosa anche laddove non v’è apparenza.


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